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I 128 del tennis — #30, Martina Hingis

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Pubblicato il 19 ottobre 2022 su TennisAbstract – Traduzione di Edoardo Salvati

A inizio anno, Jeff Sackmann si è imbarcato in un immenso progetto di elaborazione di una classifica dei 128 giocatori e giocatrici più forti di tutti i tempi, ponendosi l’obiettivo di terminare a dicembre 2022. Con una media di più di 2000 parole per singolo profilo, si tratta di una vera e propria enciclopedia di chi è chi nel tennis, dalla sua nascita a oggi. Per limiti di tempo e più evidenti limiti di talento, settesei.it propone una selezione delle figure maggiormente rappresentative per vicinanza d’epoca e notorietà, n.d.t.

Martina Hingis [SUI]
Data di nascita: 30 settembre 1980
Carriera: 1995-2002, 2006-2007, 2013-2017 (solo in doppio)
Gioco: destrimane (rovescio a due mani)
Massima classifica WTA: 1 (31 marzo 1997)
Massima valutazione Elo: 2549 (prima nel 2001)
Slam in singolo: 5
Titoli WTA in singolo: 43

// Che la si ami o la si odi, Martina Hingis è stata una fonte inesauribile di citazioni. “Ho già così tanti record”, ha detto a sedici anni dopo aver vinto Wimbledon sbarazzandosi di Mary Pierce in finale in 59 minuti. Lo stesso anno: “Tutte le volte, Tiger Woods, ancora Tiger Woods. Sono meglio di lui, sono al vertice da più tempo e sono più giovane. Sono semplicemente più forte”. Ma infatti, cosa ha mai fatto questo Woods alla fine? Nel 1994, agli US Open Juniores, dopo aver demolito Anna Kournikova 6-0 6-0, le ha detto alla stretta di mano: “Ragazzi, quanto è stato facile”, e Kournikova probabilmente non è stata l’unica a sentirlo. Alla rivista Detour: “Mi fa piacere che facciate questo pezzo su di noi e non sulla WNBA. Siamo molto più belle di tutte le altre donne nello sport”. E poi la mia preferita in assoluto, al momento del sorteggio in campo contro Lindsay Davenport: “Ok, vuoi subire il break subito o vuoi lasciarmi tenere il servizio?”.

Hingis era il sogno dei giornalisti, un’adolescente brillante e ironica, senza filtri. Era arrogante, questo è fuori di dubbio, la maggior parte delle volte però le sue parole erano, almeno in parte, vere (con eccezioni, anche decisamente fastidiose, come quella in cui ha definito Amelie Mauresmo “mezzo uomo”). A metà degli anni ’90, fece record su record in quasi tutti i risultati. Vincere era facile. Mi dissocio dal commento sulla WNBA, ma nel 1998 c’era una netta preferenza sulle riviste a parlare di Hingis, Kournikova e delle loro rivali. Mostrava raziocinio anche nella disposizione mentale: “Sono la numero 1 del mondo, fino a che non cambia qualcosa, ho il diritto di essere arrogante”. All fine, l’avevano costretta a seguire un corso di pubbliche relazioni con i media, da quale però ne era uscita con ancora meno filtri, sostenendo di sapere già quelle cose. Simile era stato il commento dopo una breve collaborazione con il maestro di tattica Brad Gilbert, colui che Andre Agassi considerava il più grande allenatore di sempre. “Tutto quello che mi ha detto, lo avevo già appreso da mia madre anni fa”.

Come scrisse S.L. Price nel 2002, era la più intelligente del gruppo. Per qualche anno, un tocco divino e un impeccabile senso della posizione in campo erano stati sufficienti. Si giocava in un’epoca in cui fisicità e potenza facevano la differenza, perché le giocatrici tiravano sempre più forte. Eppure Hingis era minuta, e così il suo servizio. Negli anni migliori, era Davide contro Golia in chiave serie TV: vinceva sempre Davide e ogni episodio si concludeva con impertinente umiliazione. Una contraddizione caratterizzava la Hingis sul campo rispetto a quella fuori: con in mano la racchetta, era capace di finezza da adulta navigata. Con le colleghe o con i giornalisti, nessuna era più categorica. Nella fase vincente, l’arroganza amplificava la sua aura. In uno sport individuale come il tennis, l’intimidazione ha sempre trovato spazio e molti campioni hanno mostrato o mostrano maggiore assertività in pubblico. Hingis faceva lo stesso effetto, pur non seguendo una chiara strategia nello spiegare perché fosse migliore di un’avversaria. Aveva detto di Kournikova: “Quale rivalità? Vinco sempre io”. Quando però aveva iniziato a perdere, si vedevano gli effetti negativi di quella schiettezza. Nonostante la spavalderia in almeno uno dei sorteggi per il servizio, Hingis era in particolare difficoltà, contro l’altezza e la potenza di Davenport. Nel 2000, aveva perso la finale degli Australian Open per 6-1 7-5, la quarta sconfitta di fila contro Davenport: solo un colpo di coda nel secondo set aveva evitato una disfatta completa. Dopo la partita, Hingis aveva confessato d’impulso: “Contro di te non riesco proprio a giocare”. Da ormai diciannovenne, avrebbe dovuto saperla più lunga. Era un commento che certamente la rendeva più umana, un’apertura a tifosi e sponsor, ma che esponeva il fianco alle avversarie del circuito. Davenport infatti non poteva crederci, erano parole inusuali che uscivano dalla bocca della numero uno. Non c’era da stupirsi se, dopo tale ammissione, due mesi più tardi Hingis aveva perso di nuovo contro la rivale, questa volta a Indian Wells, in una finale che era sì andata al terzo set, ma che Davenport aveva chiuso con un netto 6-0. Negli ultimi quattro anni, Hingis aveva concesso di subire un set a 0 solo cinque volte, tre contro Steffi Graf e una quarta in una partita poi comunque vinta. La storia non era finita qui però. Hingis poteva sentirsi frustrata, ma come per le dichiarazioni più strafottenti, non guardava mai troppo in lontananza, rimanendo scoraggiata solo per poco tempo. Due settimane dopo era di nuovo in finale contro Davenport, a Miami, dominando il loro diciannovesimo scontro diretto per 6-3 6-2.

Equilibrio e sensibilità

Davenport conosceva l’astuzia di Hingis meglio di chiunque altra e quindi certamente non poteva rimanere sorpresa da un altro capitolo della loro rivalità. Nel 1999 aveva detto a un giornalista: “Martina fa il doppio con una compagna per un anno, ne comprende il gioco e poi passa alla successiva”. Non sempre durava un anno, con Davenport hanno fatto coppia una sola volta (o Hingis sapeva perfettamente chi scegliere o era talmente brava da rendere la questione ininfluente. Tra il 1996 e il 2002, aveva vinto nove Slam con sei compagne diverse). Prova dell’intelligenza tennistica di Hingis era l’assenza di strisce perdenti come quella contro Davenport. C’era voluta una giocatrice eccellente per batterla due volte e solo un gruppo ristretto ce l’aveva fatta per tre volte di fila. Prima di ritirarsi nel 2002, aveva giocato contro Venus Williams 19 volte, vincendone dieci. Quando Williams era riuscita per la prima volta a batterla in due partite consecutive, verso la fine del 1999, Hingis si era vendicata il mese successivo senza perdere un set. Poi Williams aveva vinto entrambe le partite del 2000, tra cui una battaglia nella semifinale degli US Open che molti tra gli esperti avevano letto come passaggio di consegne. Dopo però? 6-1 6-1 per Hingis nella semifinale degli Australian Open. Nel 2001 e nel 2002 anche Jennifer Capriati e Serena Williams si erano unite al club della resistenza, ma Hingis era rimasta un passo avanti sulle altre. Il suo gioco era costruito su equilibrio e sensibilità: lei li possedeva e, dopo poco dall’inizio, l’avversaria no. A meno di non trovarla in giornata negativa, l’unica possibilità era di aggredirla nello scambio, ma anche quello non era così facile quanto potesse sembrare.

Aveva detto Monica Seles nel 2002: “Nessuna di quelle contro cui ho giocato ha un senso della posizione come Martina. È un tempo di gioco avanti a tutte. Quando siamo in doppio insieme, riesce a recuperare e piazzare colpi di cui non la credevo capace”. Si era espressa anche Billie Jean King: “È semplicemente un genio”. Più lo scambio si allungava, più tempo aveva Hingis per mostrare le sue doti. Vinceva pochi punti diretti con il servizio e anche alla risposta il numero di vincenti non era insolitamente alto. Certamente non sparava il tutto per tutto alla risposta come avviene per molte oggigiorno. Ogni scambio partiva da un’idea di costruzione. Le avversarie che la mettevano in crisi, come Davenport, erano quelle che mandavano all’aria i suoi piani accorciando lo scambio. Dopo aver vinto gli US Open 1997, aveva detto della sconfitta Venus: “Gioca come piace a me, cercando di tenere lo scambio attivo, ma è troppo pericoloso se ci sono io dall’altra parte della rete”. Venus sarebbe diventata più forte, facendo evolvere il suo gioco in modo più simile a quello di Davenport, motivo in parte che le permise, da quel momento, di vincere più della metà delle partite contro Hingis. Alla fine degli anni ’90, gli appassionati erano convinti di assistere già a un tennis di braccio libero e basse percentuali realizzative per mano dalle cosiddette ‘Grandi Sorelle’, ma Hingis avrebbe spinto lo sport ancor più in quella direzione. Artigiane della racchetta che sarebbero arrivate di lì a breve, come Agnieszka Radwanska, avrebbero avuto sempre maggiore difficoltà a contrastare il gioco di potenza sviluppato da Davenport, Venus, Serena e le altre.

L’acume tattico di HIngis arrivava principalmente dagli sforzi dell’allenatrice, nonché madre, Melanie Molitor, che era arrivata al professionismo nella Cecoslovacchia e a cui era stato proibito di uscire dal paese perché di famiglia politicamente sospetta e non brava a sufficienza da giustificare per lei un’eccezione alla regola. Aveva quindi riversato l’ambizione personale sulla figlia, mettendole in mano a due anni una racchetta e chiamandola in onore di Martina Navratilova, sia come tributo all’abilità atletica, sia per la ricerca della libertà nel mondo occidentale. Hingis, così come Venus, era salita alla ribalta nel momento perfetto per un’adolescente prodigio, appena prima che entrassero in vigore le nuove limitazioni di età per il professionismo decise dalle autorità di governo del tennis a seguito del ben pubblicizzato esaurimento nervoso di Capriati. Figlia e madre non erano particolarmente preoccupate dei rischi a cui un’adolescente poteva esporsi sul circuito maggiore. Molitor faceva attenzione a non esagerare con gli allenamenti, e incoraggiava la figlia a coltivare altri interessi, inclusi sport con potenziali infortuni fisici. Hingis aveva relegato le difficoltà di Capriati a una patologia tipicamente americana: “Non dovete preoccuparvi per noi europei, prendiamo tutto con molta più leggerezza”.

Il successo nel doppio

Molitor non era nemmeno in tensione sulla possibilità che la carriera di Hingis terminasse con anticipo. Considerava Tracy Austin e Andrea Jaeger, le giovanissime regine dei primi anni ’80, dei modelli da seguire, non delle storie di ammonimento. Aveva detto: “Oggi Austin e Jaeger sono felici. Il tennis è solo una breve fase della vita, anzi può essere una buona palestra per la restante parte”. Hingis aveva dimostrato di essere ben pronta per affrontare i ritmi sfrenati del circuito. A sedici anni aveva vinto il primo Slam, gli Australian Open 1997, poco dopo raggiunto la vetta mondiale, su cui era rimasta per un anno e mezzo. Avrebbe mantenuto il numero 1 per un totale di più di 200 settimane, il tutto prima di compiere 22 anni. Non mancavano i tipici alti e bassi dell’adolescenza, le difficoltà di un corpo che cresceva e la ricerca dell’equilibrio tra sport e vita sociale. Ma apprezzava la fama e quello che ne conseguiva. Pur di fronte a un calo di motivazione dopo aver raggiunto così tanto così presto — spesso si auto accusava di pigrizia, con la madre che enfaticamente annuiva — non aveva smesso di vincere. Hingis e Molitor avevano ragione a non temere l’esaurimento, solo che Hingis era stata poi costretta ad abbandonare il circuito per l’altra nemesi delle atlete che si consumano ancora troppo giovani, cioè gli infortuni. Come Austin e Jaeger, anche Hingis aveva provato, da quindicenne, a giocare un calendario più adatto a chi ne ha 25. Magari ne valeva la pena, visto che era stata la più giovane di sempre a guadagnare un milione di dollari in premi partita. Si era operata al ginocchio a inizio 1997, una spiegazione della sconfitta totalmente a sorpresa contro Iva Majoli al Roland Garros, l’unica in uno Slam quell’anno. Dopo la stagione 2022, era stata bloccata da problemi ai piedi e alle anche, secondo lei causati dalle scarpe che le forniva il suo sponsor, Sergio Tacchini. Aveva solo 22 anni. Nel 2006, era tornata con qualche chilo di muscoli in più, e dopo un solo mese aveva raccolto una vittoria a Tokyo contro Maria Sharapova, che era tra le prime 5. A maggio, aveva vinto gli Internazionali d’Italia, battendo in semifinale Venus, con schemi tattici su cui aveva avuto cinque anni di tempo per lavorare.

Ancora venticinquenne, rimaneva sempre un’agonista unica. Nel 2006, Kim Clijsters l’aveva sconfitta tre volte, ma anche lei riconosceva la stoffa della campionessa: “Non credo ci sia un’altra sul circuito con la stessa purezza di colpo”. Austin, ora commentatrice, riteneva che Hingis potesse tornare al vertice: “Ho l’impressione che nessuna abbia ancora capito come giocarci, ha una diversità a cui è difficile abituarsi”. Poco prima che la stagione terminasse era entrata tra le prime 10, arrivando nel 2007 al numero 6. Un infortunio all’anca aveva accorciato la stagione ed era poi risultata positiva alla cocaina, ponendo di fatto fine al rientro sui campi. A questo giro era rimasta fuori molto più a lungo. Da migliore in doppio della sua generazione, e da vincitrice del Grande Slam nel 1998 in coppia con Mirjana Lucic e con Jana Novotna, si era resa conto che sarebbe potuta ripartite senza chiedere troppo al fisico. Come specialista del doppio, tra il 2015 e il 2017 aveva aggiunto altre dieci prove Slam, quattro in doppio e sei nel doppio misto, un risultato incredibile. Agli Australian Open 2015, dove giocava in coppia con Leander Paes per vincere il primo dei quattro Slam insieme da trentacinquenni, finalmente si era espressa con cognizione di causa, complimentandosi con sincerità nei confronti delle proprie compagne e a volte anche delle avversarie. Quella vecchia fiducia cieca nei propri mezzi proprio non se ne andava però. Alla vigilia del suo ultimo torneo, le Finali di stagione 2017, aveva dichiarato: “Ci sentiamo la squadra da battere” anche se poi con la compagna Latisha Chan avevano perso in semifinale, pur concludendo al numero 1 del mondo. Dopo più di vent’anni da quando era arrivata in vetta, diceva addio dallo stesso piedistallo. ◼︎

The Tennis 128: No. 30, Martina Hingis

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