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I 128 del tennis — #54, Jana Novotna

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Pubblicato l’1 settembre 2022 su TennisAbstract – Traduzione di Edoardo Salvati

A inizio anno, Jeff Sackmann si è imbarcato in un immenso progetto di elaborazione di una classifica dei 128 giocatori e giocatrici più forti di tutti i tempi, ponendosi l’obiettivo di terminare a dicembre 2022. Con una media di più di 2000 parole per singolo profilo, si tratta di una vera e propria enciclopedia di chi è chi nel tennis, dalla sua nascita a oggi. Per limiti di tempo e più evidenti limiti di talento, settesei.it propone una selezione delle figure maggiormente rappresentative per vicinanza d’epoca e notorietà, n.d.t.

Jana Novotna [CZE]
Data di nascita: 2 ottobre 1968
Morte: 19 novembre 2017
Carriera: 1987-1999
Gioco: destro (rovescio a una mano)
Massima classifica WTA: 2 (7 luglio 1997)
Massima valutazione Elo: 2295 (seconda nel 2005)
Slam in singolo: 1
Titoli WTA in singolo: 24

// Nel realizzare questo progetto, mi sono servito di un paio di trucchetti per identificare i più grandi di sempre che non hanno ricevuto il giusto riconoscimento: non sono espedienti che ho individuato di proposito, semplicemente tendenze emerse andando avanti nell’elenco.

Per prima cosa, molti dei migliori doppisti erano altrettanto forti in singolo, più della bravura che normalmente gli si attribuisce. Vengono alla mente nomi come Rosie Casals, Tony Roche e Pam Shriver. Le capacità richieste per eccellere come singolarista o doppista non sono così diverse, e questo era ancor più vero già prima della crescente specializzazione degli ultimi vent’anni.

Secondo, se si ricorda un giocatore più per le sconfitte che le vittorie, probabilmente la storia non gli ha reso giustizia. Associamo David Ferrer con i coraggiosi ma falliti tentativi di soppiantare Rafael Nadal; Vitas Gerulaitis ha avuto bisogno di 17 occasioni prima di battere Jimmy Connors. Quello che spesso non compare nelle versioni più sintetiche della scheda di un giocatore è l’assoluto livello di perseveranza necessario a farsi strada nei tornei più importanti del calendario.

Per Jana Novotna valgono entrambe le caratteristiche. Prima di compiere 23 anni, ha già vinto cinque titoli Slam in doppio in coppia con Helena Sukova, arrivando a una sola partita dal completare il Grande Slam nel 1990. Nel 1998, Novotna ripete ancora la tripletta, questa volta al fianco di Martina Hingis. Ovviamente di lei una cosa è risaputa, cioè che ha buttato via il titolo a Wimbledon 1993. Alla morte prematura per cancro alle ovaie nel 2017, il necrologio del New York Times apre proprio con quella finale persa. Il titolo la chiama ‘campionessa ceca’, ma nella foto in evidenza la si vede piangere sulle spalle della duchessa di Kent. Novotna è diventata l’incarnazione della giocatrice che cede sotto pressione. Nello scrivere del crollo di Serena Williams contro Karolina Pliskova agli Australian Open di qualche anno fa, inizialmente ero riuscito a evitare di citarla, ma poi il suo nome è rientrato nella versione finale. A quanto pare, deve essere d’obbligo.

Se Novotna avesse perso nei quarti di finale di quell’edizione, la ricorderemmo più per la vittoria a Wimbledon che ha poi conseguito nel 1998. O se Steffi Graf se ne fosse sbarazzata velocemente in finale, Novotna sarebbe una delle tante fortissime giocatrici che non sono riuscite a tenerle testa. Invece, ci è andata così vicino — 4-1 nel terzo set e punto del game sul servizio — per poi sciogliersi nella partita più importante della carriera.

Non cedere sotto pressione

Nella biografia di Novotna sul sito della International Hall of Fame è lodevole lo sforzo di enfatizzare gli aspetti positivi: la finale di Wimbledon 1993 non compare prima del quarto paragrafo, più o meno a metà dell’articolo. È probabile quindi che se state leggendo quella pagina sappiate già cosa sia successo. Con tutte le buone intenzioni del caso, il cinereo giornalista sembra proprio cercare di gridare fragorosamente, non badate, non badate al doppio fallo che sta per essere commesso!

Novotna ha sempre sostenuto di non aver ceduto alla pressione e che stesse applicando la sua solita tattica rischiosa. Dopo aver rivisto la partita, serve essere parecchio caritatevoli però non dissentire. Graf chiude il primo set con il margine più risicato, 8-6 al tiebreak. Novotna aggredisce il secondo e capitalizza gli errori dell’avversaria, chiudendo 6-1 e mandando la partita al set decisivo, nel quale mantiene la presa e raggiunge il 4-1 pesante, quello con un doppio break. Una volée da manuale le regala il punto per andare 5-1. Poi il dramma: doppio fallo con la seconda che esce di chilometri; due errori non forzati a rete e game a Graf, che a sua volta, non sta giocando bene: Novotna infatti ottiene due palle break nel game successivo ma non riesce a sfruttarle. Sul 4-3, Novotna commette altri tre doppi falli e il set torna in parità. Dopo che Graf tiene il servizio a zero, Novotna fa tre errori non forzati e vince un solo punto al servizio nel game conclusivo.

Qualche tempo dopo, ha detto in un’intervista all’Indipendent: “Io gioco così, in semifinale e nei quarti di finale ha funzionato. Ok, lo riconosco, le ho dato una opportunità con il doppio fallo e la banale volée sbagliata. Ho riguardato il video, giocherei comunque di nuovo allo stesso modo”. Molta interpretazione è lasciata al significato esatto delle sue parole. Era infatti noto che facesse più doppi falli della giocatrice tipica, proprio perché spesso seguiva a rete una seconda più incisiva. Chi si cimenta nel servizio e volée di solito accetta di essere passato o di sbagliare occasionalmente a rete, perché le percentuali sono dalla sua parte.

Si tratta però pur sempre di percentuali. Il mio modello dava a Novotna il 95.6% di probabilità di vittoria nel momento di massimo vantaggio nel terzo set. In media, la probabilità di vincere la partita avendo una palla match è del 97%, e per Williams prima di capitolare nel 2019 era del 98.9%. Diamo a una giocatrice — a maggior ragione del tipo ‘attacco a tutta’ in stile Novotna — un vantaggio come quello contro Graf nella finale di Wimbledon e su una dozzina di volte per forza di cose una la manderà completamente all’aria. Sfortunatamente per Novotna, quella che ha mandato completamente all’aria è stata sul centrale di Wimbledon, con la vittoria in pugno e il mondo a guardare.

Quell’etichetta che l’accompagna ovunque

Prima della finale di Wimbledon, si pensava di Novotna che fosse una brava giocatrice in singolo, ma non tra le più forti. Era arrivata in finale agli Australian Open 1991, battendo Graf a sorpresa e strappando un set a Monica Seles, e rientrava a malapena tra le prime 10. Dopo quel fatidico giorno, la classifica non contava più, perché la reputazione da incapace di reggere la pressione era marchiata a fuoco. Sue Barker aveva detto di lei: “Ormai ha quell’etichetta addosso, e dovrà sudare il doppio per liberarsene”. Se solo lavorare ancora più duramente fosse facile a farsi quanto a dirsi. Poteva anche illudersi dicendo di aver giocato la finale di Wimbledon come si doveva giocare, ma certamente possedeva la giusta disposizione per riprendere velocemente a salire.

A settembre, al rientro del circuito in Europa per la stagione al chiuso, arriva in finale a Lipsia, dove perde sempre da Graf ma con un punteggio più netto, ma vince a Brighton. Poi l’anno successivo i quarti di finale in Australia e a Miami la fanno entrare nelle prime 5 della classifica per la prima volta e, in autunno, vince sedici partite di fila, tra cui i tornei di Lipsia, Brighton ed Essen (al proposito dichiarava che avrebbe potuto vincere tre tornei uno dietro l’altro ma che le persone comunque avrebbero commentato che sì, sta giocando bene, ma vi ricordate la finale di Wimbledon in cui ha avuto il braccino?). Chiude il periodo con la vittoria in doppio degli US Open 1994 e degli Australian Open 1995, in coppia con Arantxa Sanchez Vicario.

Si potrebbe anche dire che è riuscita a lavorare ancora più duramente. Sotto la guida della sua allenatrice, la connazionale e vincitrice di Slam Hana Mandlikova, sviluppa un gioco sempre più completo, rendendosi lentamente conto di cosa serve per raggiungere il vertice. A volte, questo significa portare a casa partite che avrebbe dovuto concludere molto più facilmente. Il titolo a Lipsia nel 1994 richiede due vittorie in recupero, ciascuna finita 7-5 al terzo set. A Melbourne nel 1995, avanza agli ottavi con una vittoria per 9-7 al terzo contro Lisa Raymond. Che si possa trattare di partite da vincere con meno pathos non è argomento di pertinenza, perché comunque risolve situazioni in cui c’è il rischio di cedere sotto pressione, e Novotna non lo fa più.
Però, poi, lo fa di nuovo. Al Roland Garros 1995, poco meno di due anni dopo il tracollo di Wimbledon, spreca sei palle match in una sconfitta al terzo turno contro Chanda Rubin, di cui tre sul 5-0 al terzo set. Qualsiasi speranza della ventiseienne ceca di strapparsi di dosso l’etichetta della perdente sotto pressione si infrange contro la dura realtà dei fatti.

Pur dopo un altro indiscutibile disastroso passaggio a vuoto sul curriculum, Novotna continua a riemergere. Anche se su Sports Illustrated Franz Lidz l’ha definita ‘così intelligente quasi da rimetterci’, non ha problemi a far leva sulla memoria selettiva che separa la campionessa dalle giocatrici normali per dimenticare i momenti più bui, laddove nessun’altra sarebbe riuscita. Nel 1996 scende in classifica fino al numero 14, ma recupera velocemente: a maggio vince a Madrid il primo titolo sulla terra in sette anni. È di nuovo al meglio per la stagione al chiuso, quando batte per due volte sia Hingis che Jennifer Capriati. Finisce l’anno al numero 3, la più alta posizione raggiunta e, passati sei mesi, si erge fino alla seconda. Una lunga attesa la riporta in finale a Wimbledon, ma un infortunio addominale e una Hingis senza pietà significano un’altra sconfitta al terzo set. La duchessa di Kent le ricorda che la terza volta potrebbe essere quella giusta. Inevitabilmente il racconto della finale del 1997 rievoca quella quasi vinta nel 1993, ma chiunque guardi oltre può notare che la Novotna fragile, troppo intelligente e incline a essere schiacciata dalla pressione è storia del passato.

Il 1997 è un continuo esempio di ardore. Su 68 partite, 28 vanno al terzo set: ne vince 19 e una delle 9 sconfitte è appunto la finale di Wimbledon con infortunio. Solo il più ingeneroso potrebbe definire una sconfitta delle rimanenti 8 come un crollo sotto pressione, cioè il quarto di finale agli US Open contro la compagna di doppio Lindsay Davenport, in cui però è impossibile darle colpa. Folate di vento rendono le condizioni così estreme che durante il terzo set, durato 84 minuti, entrambe sorridono alla comicità della situazione. L’ultima vittoria nelle Finali di stagione al terzo set contro Mary Pierce le consegna il torneo più importante dopo gli Slam. Ha 29 anni ed è circondata da giocatrici adolescenti, ma è all’apice della forma.

Finalmente il trionfo tanto agognato

Quello del 1998 è il tredicesimo Wimbledon per Novotna. Dopo la famosa finale del 1993, non si è mai fermata prima dei quarti, perdendo solo dalle più forti: Graf, Hingis, Navratilova. Finalmente esprime il tennis migliore al momento giusto e contro le avversarie più congeniali. Nei quarti è Venus Williams a perdere il pallino dopo una chiamata sfavorevole. In semifinale, Novotna gioca con ancora più precisione, vendicando contro Hingis la sconfitta del 1997. Di fronte alla risposta tagliente della diciassettenne, non si sbilancia nel servizio e volée, ma viene comunque a rete 65 volte in due set, vincendo 29 punti e la partita con un doppio 6-4.

Riceve anche qualcosa di più della rara soddisfazione di una vittoria contro l’ostica Hingis, sue parole che possono essere interpretate come elogio: “A volte sembra che l’età faccia la differenza” (questo spirito caritatevole di Hingis non dura a lungo, perché dopo aver vinto tre Slam insieme, Novotna viene tacciata di essere troppo vecchia e lenta e scaricata). Con Graf sconfitta a sorpresa al terzo turno e Hingis eliminata, rimane solo l’improbabile figura di Nathalie Tauziat prima della gloria eterna a Wimbledon.

Tauziat è un’altra veterana del servizio e volée ma, nonostante abbia un anno in più di Novotna, è alla prima finale Slam. E lo lascia trasparire. Entrambe partono con cautela, accumulando nei primi game parecchi errori. Novotna non riesce a placare la tensione completamente, ma quando conta non sbaglia. Dopo aver ottenuto il break sul 3-3, tiene il servizio comodamente e raccoglie il primo set. Nel secondo, spreca l’occasione di chiudere la partita sul 5-4 con una sfilza di errori non forzati, ma si riprende al tiebreak in modo perentorio grazie alla prima di servizio e mettendo in difficoltà Tauziat nei turni di risposta. La vittoria è assicurata con il punteggio di 6-4 7-6(2). Aveva ragione la duchessa, la terza volta è quella giusta. E per non farsi mancare nulla, Novotna alza anche il trofeo in doppio, che diventa il quarto in otto finali, a cui aggiungerà di li a poco gli US Open, il dodicesimo e ultimo Slam nella disciplina.

Ancora nel 1993, Novotna si era chiesta retoricamente: “Quante giocatrici che non reggono la pressione arrivano in finale a Wimbledon?”. Cinque anni dopo, avrebbe potuto farsi una domanda simile, cioè quante giocatrici che non reggono la pressione arrivano in finale a Wimbledon 3 volte e ne vincono una. Per lei la risposta era chiara. “Tutto si riduce a questo: devi badare a te stessa, devi sapere chi sei e consapevole di quanto sei forte”. La differenza tra vincere un torneo e mancarlo per cinque punti non è in discussione, Novotna però, diversamente da molti opinionisti e tifosi, aveva compreso che la distanza che separa le due situazioni è molto breve. Aveva creduto nelle sue capacità quando il mondo la conosceva solo come quella che crollava nei momenti più importanti. Non si era mai tolta di dosso quell’etichetta, che probabilmente non l’abbandonerà più, nemmeno dopo la morte. Ma aveva perseverato fino a vincere quel torneo tanto agognato, assicurandosi un posto tra i grandi dello sport. ◼︎

The Tennis 128: No. 54, Jana Novotna

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