Il più grande archivio italiano di analisi statistiche sul tennis professionistico. Parte di Tennis Abstract

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I 128 del tennis — #50, Mats Wilander

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Pubblicato l’8 settembre 2022 su TennisAbstract – Traduzione di Edoardo Salvati

A inizio anno, Jeff Sackmann si è imbarcato in un immenso progetto di elaborazione di una classifica dei 128 giocatori e giocatrici più forti di tutti i tempi, ponendosi l’obiettivo di terminare a dicembre 2022. Con una media di più di 2000 parole per singolo profilo, si tratta di una vera e propria enciclopedia di chi è chi nel tennis, dalla sua nascita a oggi. Per limiti di tempo e più evidenti limiti di talento, settesei.it propone una selezione delle figure maggiormente rappresentative per vicinanza d’epoca e notorietà, n.d.t.

Mats Wilander [SWE]
Data di nascita: 22 agosto 1964
Carriera: 1981-1996
Gioco: destro (rovescio a due mani)
Massima classifica ATP: 1 (12 settembre 1988)
Massima valutazione Elo: 2309 (primo nel 1983)
Slam in singolo: 7
Titoli ATP in singolo: 33

// Mats Wilander ha giocato alcune delle partite più lunghe di sempre. In quelle diventate epiche, specialmente contro Ivan Lendl, gli scambi erano spesso battaglie da fondo fatte da decine e decine di colpi. Nella finale del Roland Garros 1982 contro Guillermo Vilas, un punto era durato 90 colpi. Uno spettatore a Parigi commentò che era un tennis da rispettare. Non necessariamente da gustare però. Vitas Gerulaitis, una delle vittime di Wilander nel torneo, lo chiamò ‘il muro di gomma svedese’.

Pur facendo leva su uno stile che Sports Illustrated aveva definito ‘da racchettoni’, Wilander si considerava un giocatore aggressivo, anche più dei famosi attaccanti della sua epoca: “Ho sempre pensato di essere più offensivo di giocatori come Edberg o McEnroe, perché credo che il loro tennis sia più rischioso, da scommessa dentro o fuori. Per me è un atteggiamento negativo, che deriva dal fatto che non hai sufficiente solidità da fondo. Invece ho costruito il mio gioco in modo da evitare che chi ho di fronte vada per i suoi colpi migliori. Andare a rete con quella foga significa esporsi come bersaglio mobile: se l’avversario trova il passante, non ho possibilità di replicare”.

Nel 1982 affermava che, pur di odiare gli scambi da fondo, a volte erano l’unico sistema per vincere le partite. Wilander era prima e più di tutto un tattico, un risolutore di problemi, e in questo uno dei migliori di ogni tempo. Se gli servivano 30 colpi prima di riuscire ad aprirsi il campo per un vincente di rovescio, li giocava tutti quanti. Se si accorgeva che stava diventando prevedibile, poteva fare servizio e volée anche a soli due punti dalla sconfitta. E se tra i giovani arrivava qualcuno con un colpo da cui riteneva di poter trarre beneficio, come il devastante servizio a uscire carico di effetto di Stefan Edberg, Wilander lo copiava fino a metterlo in pratica nella finale di uno Slam. Era stato il mastro artigiano per quasi tutto il decennio degli anni ’80, con il resto del circuito a fornirgli i ferri del mestiere.

Come Borg, diverso da Borg

Ci è voluto del tempo prima che il mondo del tennis ne riconoscesse le capacità individuali. Un adolescente terraiolo svedese dal rovescio a due mani richiamava subito alla mente un giovane Bjorn Borg, il quale aveva saltato il Roland Garros 1982 perché non era disposto a soddisfare interamente gli impegni imposti dal calendario. Qualcuno però per scherzo aveva ipotizzato che ci fosse andato comunque, sotto mentite spoglie: non colpiva con la stessa violenza, ma aveva finito per trionfare, con il nome di ‘Mats Wilander’. La vittoria del vero Wilander aveva esteso il regno svedese a Parigi di un altro anno, il quinto, ma di certo non aveva aiutato a tenere distinti i due giocatori. Ion Tiriac si chiedeva se ci fosse qualche tipo di laboratorio per macchine da tennis in Svezia, macchine sulle quali venivano poi applicate delle piccole teste pensanti.

Naturalmente Wilander nutriva rispetto totale per Borg. Avevano giocato una volta, a Ginevra l’anno prima, e Borg aveva vinto 6-1 6-1. Wilander era convinto di aver ricevuto quei due game in regalo. Avesse dovuto affrontare Borg al Roland Garros, pensava che il risultato sarebbe stato simile. I due però non si conoscevano bene, e Borg non era nemmeno l’idolo del diciassettenne Wilander, che invece ammirava Ilie Nastase, perché: “il tuo idolo non è qualcuno come sei tu, ma uno che vorresti essere”. Entrambi possedevano il rovescio a due mani, ma si tratta solo di correlazione, non c’è un rapporto di causa-effetto. Wilander infatti se l’era costruito ben prima che Borg diventasse Borg, e lo usava per battere ragazzini molto più grandi di lui. Aveva inoltre un gioco più completo, anche se non sempre lo mostrava. Era più forte a rete di Borg adolescente e forse di Borg a qualsiasi età. Nella finale del Roland Garros 1982 contro Vilas non fece mai servizio e volée per poi però, un anno e mezzo dopo e appena diciannovenne, andare a rete praticamente su tutte le prime nella finale degli Australian Open contro Lendl, vincendo il punto più del 75% delle volte. Quello che avevano in comune era una tranquillità in campo che quasi sconfinava nell’inumano. Era la prima cosa che in molti tra gli osservatori avevano notato del giovane svedese. Tiriac aveva detto: “l’arma di Wilander è la mente. Mettiamola in questo modo: è un ragazzino con l’esperienza di un adulto navigato”. A Parigi nel 1982, nessuno si aspettava che battesse Lendl, men che meno lo stesso Wilander. Di fronte alla possibilità di un recupero dell’avversario al quinto set, aveva iniziato a sentire la pressione. Soluzione? “Non lasciarlo vedere a nessuno, è sempre meglio continuare a giocare e basta”.

Un amante della vita…

Sei anni più tardi, Paul Annacone sosteneva che: “nel tennis di oggi, la differenza non la fa il dritto di Agassi, ma il cervello di Wilander”. O forse lo aveva detto Brad Gilbert, o ancora Jay Berger, non si sa per certo. Probabilmente tutti e tre, perché era così ovvio. Anche sotto questo aspetto, tra Borg e Wilander erano più marcate le differenze che le somiglianze. Borg raggiungeva la calma assoluta nel controllo di qualsiasi cosa e impostando la sua vita intorno al tennis. Wilander non ci sarebbe mai riuscito. Dormiva ad esempio alla minima occasione, mai però avrebbe tenuto il conto delle ore. Non era ossessionato dagli allenamenti e sul circuito aveva pochi rivali e molti colleghi con cui andare a bere una birra. John-Anders Sjogren, l’allenatore di Wilander, lo chiamava un amante della vita, etichetta difficilmente applicabile a un vincitore multiplo di Slam, specialmente nell’era moderna. Pur giungendo da strade diverse, Borg e Wilander si ritrovavano su un terreno comune, l’assoluta indifferenza per le situazioni di pressione. Il compagno di squadra Anders Jarryd aveva dichiarato: “se dovessi scegliere un giocatore di tutta la storia del tennis da avere come compagno di Davis, prenderei Mats. È così capace di controllo nei momenti critici che, se la tua casa sta bruciando, vorresti averlo accanto”.

Di sicuro non guastava che Wilander fosse tra i più in forma sul circuito. In un’intervista del 2011 sul Wall Street Journal, aveva detto a Tom Perrotta: “nel tennis si corre, non basta colpire, non è il golf”. Non aveva la fretta di terminare le partite. Nelle prime due stagioni da professionista, non cercava mai le linee e teneva un margine di sicurezza così ampio da sbagliare raramente; gli scambi si trascinavano fino a che l’avversario non prendeva l’iniziativa. E se l’andamento fosse così noioso da far emergere una proposta per cambiare le regole? L’idea era di avere una luce di avvertimento che lampeggiasse dopo il trentesimo colpo. A quel punto, rimanevano cinque colpi per finire il punto.

…ma sempre pronto a imparare

La finale del 1982 era durata quattro ore e 43 minuti. Vilas, un veterano di molte maratone sulla terra battuta, aveva ammesso che Wilander era fisicamente più forte di lui. La finale degli US Open 1987, contro Lendl, era durata quattro ore e 47 minuti, senza nemmeno la necessità del quinto set. Fosse diventato professionista un paio di decenni prima, in assenza del tiebreak Wilander si sarebbe presentato ancora più da favorito. L’epopea a Flushing Meadow aveva richiesto infatti due tiebreak. Senza quelli, Wilander avrebbe distrutto qualsiasi record di durata. A luglio 1982, aveva disputato la più lunga partita nella storia dei singolari in Coppa Davis: sul tappeto di un campo al coperto a St. Louis, se l’era sudata punto per punto contro John McEnroe, numero 1 del mondo, per sei ore e 32 minuti. Dopo aver perso i primi due set, quasi era riuscito a portare il punto alla Svezia nello scontro decisivo. Punteggio finale: 7-9 2-6 17-15 6-3 6-8. McEnroe non aveva più preso la racchetta in mano per un mese, Wilander era tornato direttamente in Svezia per vincere il torneo di Bastad la settimana successiva.

Quello stile, che aveva reso Wilander un giovanissimo campione, non poteva durare per sempre. E si accorse dei limiti appena un anno dopo, uscendo sconfitto dalla finale del Roland Garros 1983 contro Yannick Noah. La maggior parte degli avversari cercava in tutti i modi di evitare il rovescio di Wilander. Noah invece era andato proprio lì, facendogli trovare da quel lato colpi corti e bassi, che non sarebbero stati un problema se in possesso di un rovescio tagliato. Per un ribattitore a due mani, le opzioni tuttavia erano ridotte. Soluzione? Imparare il rovescio tagliato a una mano. La strategia era semplice, copiare cioè il migliore rovescio tagliato che conoscesse, quello dello specialista australiano di doppio Peter McNamara. Nella partita contro Noah, Wilander aveva colpito solo una manciata di rovesci tagliati. Sei mesi più tardi nella finale degli Australian Open contro Lendl, il conto era arrivato a 34. L’anno dopo ancora, nella finale del Roland Garros 1985, il computo era salito a 57: niente materiale da cineteca, ma l’impalpabile capacità di costringere l’avversario a subire il suo gioco.

La pratica Lendl

Con Lendl, la prospettiva era ben diversa. Non solo era uno dei pochi in grado di vincere lunghi scambi da fondo contro Wilander, ma si prodigava in una continua evoluzione del proprio gioco: quello affrontato nel 1986 era un Lendl ben più forte di quello che Wilander aveva battuto a diciassette anni. Soluzione? Sconfiggere Lendl sul suo stesso terreno. Il collega Matt Doyle aveva convinto Wilander che il rafforzamento muscolare avrebbe aggiunto potenza al servizio, al dritto e anche al rovescio a due mani, già considerato il migliore in circolazione. Allenandosi con Doyle — di fatto copiando il regime di Lendl — voleva dire raggiungere un nuovo livello di impegno, ma se l’idea era di sostituirlo al numero 1 del mondo, era chiaro il da farsi.

Poteva essere un atteggiamento svogliato a limitare l’ascesa di Wilander, più di qualsiasi mancanza fisica. Non era mai stato una macchina da tennis, per quanto ne dicesse chi criticava il suo stile, e trovava specialmente difficile sentirsi motivato per competere nei tornei minori. Nel 1988 aveva spiegato al giornalista Franz Lidz che dare il 100% in qualsiasi partita degli Slam veniva facile. Nelle Finali di stagione il 99%. Da qualsiasi altra parte, non era più del 70 o 80%. Anche il numero 1 non gli dava la stessa spinta che a McEnroe o Lendl. Vincere la Coppa Davis per la Svezia sì, almeno fino a che non ce l’aveva fatta contro gli Stati Uniti nel 1984. Dopo, si era chiesto: “Che cosa si può volere in più da me? Dopo questo pensiero, la pressione se n’è andata”. Che vantaggio porta essere di indole refrattaria alla pressione, se la pressione poi non c’è?

La sfida con Lendl e il numero 1 avevano dato a Wilander nuova carica. Nel 1987 però Lendl era ancora troppo forte: si erano incontrati tre volte e Wilander era riuscito a vincere solo un paio di set, uno nella finale maratona al Roland Garros e uno nella finale degli US Open, un’altra maratona. Anche se qualche miglioramento della cura Doyle si era visto, come un servizio più aggressivo, Wilander aveva terminato l’anno dove lo aveva iniziato, cioè dietro a Lendl e Boris Becker. La ricompensa era arrivata nel 1988. Aveva battuto Pat Cash 8-6 al quinto per la vittoria agli Australian Open, poi a Parigi in tre set contro Henri Leconte per il terzo Roland Garros. E, infine, lo scontro diretto con Lendl agli US Open, per entrambi in palio il torneo e il numero 1. Un giovane Wilander non avrebbe avuto scampo; a 24 anni, con un servizio più incisivo, un gioco a rete più affidabile e un rovescio tagliato ancora più efficace, la dotazione era sufficiente per resistere e superare Lendl. Dopo cinque set e quattro ore e 54 minuti di gioco, era la nuova finale Slam più lunga di sempre (Novak Djokovic e Rafael Nadal avrebbero poi aggiunto un’altra ora nel 2012). Wilander era sceso a rete più di 100 volte e aveva colpito lo strabiliante numero di 395 rovesci tagliati. A questo punto della carriera, il rovescio tagliato non era più una l’ultima spiaggia, ma un’arma a pieno diritto. Tipicamente un colpo difensivo, in media quando lo si gioca si vince molto meno della metà degli scambi. Contro Lendl, Wilander aveva portato a casa il 58% dei punti con il rovescio tagliato, chiudendo la partita per 6-4 4-6 6-3 5-7 6-4 e portando il record al quinto set negli Slam a un incredibile 13-1. Dopo otto anni di professionismo e sette titoli Slam, finalmente Wilander era arrivato in cima alla classifica.

Dopo la vetta, il declino

Quello che è successo dopo, in retrospettiva, è stato assolutamente in linea con il personaggio. Wilander vince un piccolo torneo a Palermo, ma poi solo due vittorie in sei partite per il resto della stagione. Nella finale di Coppa Davis a dicembre contro la Germania, da fresco numero 1 spreca un vantaggio di due set e perde contro Carl Uwe Steeb, il numero 74. Lo aveva previsto già nel 1983: “in futuro, se c’è troppa pressione, troppa esposizione mediatica, forse non mi andrà di essere il numero 1 del mondo”. Una volta sorpassato Lendl, Wilander non aveva più nulla da dimostrare. Lo aveva anche detto a Sports Illustrated: “John [McEnroe] e Jimmy [Connors] sentivano la responsabilità di dover riaffermare la loro classifica ogni settimana. Per me era diverso…ero appena diventato numero 1, che cosa ci si aspettava che facessi, dimostrare di poter essere di nuovo il numero 1”? Su questo non c’era pericolo. Dopo una sconfitta al secondo turno degli Australian Open 1989, perde infatti la prima posizione e non vince un torneo per tutto l’anno, mai successo dopo 1981, uscendo anche dai primi 10.

Il tennis piaceva a Wilander ma, da amante della vita, nutriva anche altri interessi e inseguiva altre sfide. Aveva una band con cui suonava la chitarra, una moglie con cui trascorrere le giornate a crescere la giovane figlia. Sarebbe sempre rimasto il risolutore di problemi in grado di escogitare un modo per respingere qualsiasi nuova tattica emergente sul circuito. Ora però, aveva altre faccende di cui occuparsi. ◼︎

The Tennis 128: No. 50, Mats Wilander

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